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Pubblicato da Angela Molinari 08 dicembre 2020

L'anoressia e uno dei sintomi più importanti: il rifiuto

L'anoressia e uno dei sintomi più importanti: il rifiuto  


Tra i sintomi dell'anoressia c'è il rifiuto del cibo. Questo sintomo va inquadrato in una prospettiva più ampia che vada ben oltre le questioni alimentari e del peso

 

 

 

A tavola non mangio più 

   Uno dei segnali più comuni che viene riconosciuto, spesso a posteriori, come un campanello d’allarme per la presenza di un sintomo alimentare, è il rifiuto, da parte di chi ne soffre, di mangiare con gli altri. Può essere il pasto consumato in famiglia, oppure una cena fra amici, o ancora la tavola imbandita in occasione di una ricorrenza. Chi ha un problema col cibo lascerà il posto vuoto, preferendo al convivio la solitudine alimentare. E’ molto importante comprendere le ragioni profonde di questo comportamento così destabilizzante per il senso comune, che merita uno spazio di riflessione suo proprio, resistendo alla tentazione di associarlo immediatamente e soltanto al tentativo di perdere peso.

   Partiamo da un’affermazione radicale: l’essere umano, a rigore, non mangia mai da solo. Lo attesta la stessa etimologia della parola latina convivio, che abitualmente traduciamo con “banchetto”, ma che letteralmente significa “vivere insieme”. Come a dire che non solo per vivere bisogna mangiare, ma anche che il cibo per gli esseri umani non è mai “soltanto cibo”. Perfino nelle società più semplici nessun nutriente è considerato commestibile di per sé, ma solo come effetto di un processo di selezione, coltivazione, distribuzione, preparazione realizzato collettivamente. L’antropologia, la sociologia, la storia dell’alimentazione documentano la straordinaria ricchezza e varietà delle pratiche alimentari umane, le quali, nel loro insieme, inseriscono la “sostanza” in un “discorso”, fatto di regole, riti, miti e tabù, diverso a seconda dei contesti e del tempo storico, che riveste di umanità la mera ingestione degli alimenti. Parallelamente, per i più piccini, imparare a “stare a tavola” è uno strumento essenziale di socializzazione, di acquisizione delle norme del vivere sociale: il controllo dei gesti, il rispetto dei ruoli, la sequenza dei pasti/tempi (il primo, il secondo …), l’alternanza tra masticazione e conversazione (“non si parla con la bocca piena!”).

   E’ questo raffinato ordinamento che i disturbi alimentari sovvertono, suscitando in chi li osserva un senso di sgomento che va ben oltre la ricaduta psicofisica da essi prodotta e tocca alla radice qualcosa dell’umano in generale. Non a caso il grande filosofo Aristotele diceva che mangiare e vivere soli è la condizione propria di una bestia o di un dio. Che senso dare, allora, al sofferto dis-ordine che queste patologie manifestano, avvitandosi nel paradosso di un convivio impossibile?

 

Il mangiare come atto “clandestino”

 

    Un altro termine, in luogo di “isolamento” e “solitudine”, coglie forse con più esattezza la cifra di un rapporto patologico col cibo, ed è l’aggettivo “clandestino”. Il dizionario della lingua italiana Treccani lo definisce così: ciò “che è fatto di nascosto, e si dice per lo più di cose fatte senza l’approvazione o contro il divieto delle autorità”. Seguendo la suggestione, nei disturbi alimentari proprio il mangiare, ossia un gesto quotidiano, ordinario e soprattutto necessario alla sopravvivenza, è vissuto come un illecito, bandito come fuorilegge. Essendo proscritto, va consumato “di nascosto”, in condizioni protette, al di fuori delle normali consuetudini. Da questo punto di vista, sedersi a tavola con gli altri significa uscire allo scoperto, offrirsi a un’esposizione intollerabile, rendersi protagonisti di un’oscenità. Non solo il mangiare, ma l’essere visti mangiare, per chi soffre di un disturbo alimentare, è fonte di profonda inquietudine.

    Il significante della clandestinità ci aiuta a capire che solo superficialmente il rifiuto del convivio è uno stratagemma per controllare il peso, o l’effetto di una condotta “maleducata”. Certo, alcuni comportamenti abnormi, come le abbuffate, la dispensa saccheggiata, il vomito autoindotto attivano in chi li agisce un profondo senso di colpa e di vergogna. Resta il fatto – e va sottolineato – che colpa e vergogna erano già là, esistevano ben prima, nella vita del soggetto, dell’’insorgenza del problema col cibo. La disobbedienza all’interdetto di alimentarsi (il semplice aver fame è abominevole) è solo la conferma di un’indegnità più profonda, patita a livello esistenziale prima ancora che alimentare.

   La vergogna, afferma Sartre, “nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno” (Sartre, 1965). Discende dal sentirsi visti, anzi, letteralmente attraversati dallo Sguardo dell’Altro. Riguarda quindi il corpo più che il “comportamento”. Tale suggestione ci permette di concludere che la presunta solitudine alimentare nei DCA è soltanto un’apparenza, un artificio, un velo sottile che dissimula una Presenza avvertita come costante e incombente. In fondo non c’è differenza, per chi ne soffre, tra mangiare con gli altri, guardarsi allo specchio o salire sulla bilancia. In tutti i casi lo Sguardo dell’Altro è la Legge, il cui solo comandamento è la distanza tra il dover essere (più magra, più bella, più gentile, più intelligente) e ciò che si è. E’ probabile che ciascun paziente nella sua storia abbia sentito sul proprio corpo il peso di uno sguardo siffatto. A malattia conclamata, purtroppo, esso viene spesso tragicamente riprodotto: nel passante raggelato dall’emaciazione o dalla pinguedine, nel familiare angosciato che implora “mangia!”, nel professionista “fissato” su peso e misure.

   Per guarire è necessario in primo luogo incontrare uno sguardo diverso, quello di un professionista specializzato, a cui parlare di sé. A poco a poco si avvierà un discorso interiore che non parla soltanto il cibo. Proprio come si fa a tavola.

 

  

   




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